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Incontrarlo a quell’ora, in piena mattinata non era un buon segno. I diciassettenni dovrebbero essere a scuola in quel momento. E lui invece era in giro con l’immancabile borsone sportivo.
Qualche convenevole e poi, senza che glie lo chiedessi, e con un tono quasi di scusa mi ha detto “La scuola l’ho lasciata dopo la qualifica” (ecco, lo sapevo, un professionale). “Adesso mi sto impegnando perché io voglio fare il portiere.”
Una persona assennata avrebbe dovuto fargli il predicozzo. La scuola è importante. E’ stato uno sbaglio lasciarla, e via così pontificando. Io però lo guardavo negli occhi e li vedevo brillare di entusiasmo. E così quello che gli ho detto è stato “Hai fatto bene! Tu hai un sogno, ed è giusto che tu ce la metta tutta per realizzarlo”. Io non avrei potuto dirgli altro. Anche a me, dopotutto, quando passavo le ore in radio invece che all’università mi facevano la predica. Ma io sapevo che ero nata per stare dietro ad un microfono. Era quello che mi rendeva felice. Ed è quello che faccio oggi per vivere. Negli occhi di Klaidy leggevo la stessa cosa “Sono nato per stare fra i pali”.