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La follia è sempre stata in bilico tra il silenzio del delirio, che non possiede un linguaggio per esprimere le proprie ragioni e la parola, che parla invece il linguaggio di un sapere sommerso, escluso dal dominio del potere e della legittimazione sociale. La figura del buffone, nel teatro che va dal Medioevo fino al Rinascimento, costituiva una istituzionalizzazione della parola della follia, una parola che non viene ascoltata, una parola irresponsabile, ma che ha il privilegio di una vista acuta e inaudita.
Ma quando la follia ha cominciato ad essere compresa dalla ragione, attraverso la nascita della psichiatria, essa ha subito il pericolo di scomparire sotto il giudizio della razionalità medica. Nella prospettiva della psichiatria gli individui folli non sono più i rappresentanti di un mondo, respinto ai margini della società, ma sono solo dei malati. La letteratura dello scorso secolo ha risentito di questo slittamento della follia nella malattia. Il tentativo di grandi artisti e innovatori, come Van Gogh e Nietzsche, di esprimere il loro fascino verso una visione delirante del reale, poiché in assoluta mancanza di sintonia con la visione comune, subisce alla fine lo scacco dell'esclusione nel regno della follia.


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